Premio “Alexander Langer” a “Donatori di Musica”
Donatori di Musica (http://www.donatoridimusica.it) è una rete di musicisti, medici e volontari, nata nel 2009 per realizzare e coordinare stagioni di concerti negli ospedali. L’esperienza, nata nell’Oncologia di Carrara, è ora ospitata anche nelle oncologie di Brescia, Saronno, Bolzano, Sondrio, Vicenza, Roma (San Camillo Forlanini).
A “Donatori di musica” è andato il premio della Fondazione “Alexander Langer” 2013; queste le motivazioni:
La decisione di premiare “Donatori di Musica” – una rete di artisti, medici, infermieri e volontari che prende il nome dall’impegno a organizzare, prevalentemente in reparti oncologici, stagioni di concerti – può sembrare una rottura con la tradizione che per anni ha visto la Fondazione Langer privilegiare l’opera di pacificazione e di soccorso in luoghi di conflitto e di crisi umanitaria. Più che una rottura, però, è uno spostamento: dal lontano al vicino, dall’emergenza alla quotidianità, dalla cura della vita offesa alla cura della vita pericolante. E non solo: se c’è un tratto che accomuna i nostri premiati, è la scelta nonviolenta, e di nonviolenza la pratica medica ha un profondo bisogno. Quando Gandhi, e dopo di lui Illich, denunciavano gli effetti patogeni della moderna medicina, il bersaglio erano sia lo specialismo, sia la
violenza potenziale legata alla disparità di conoscenze, padronanza, potere fra chi soffre e chi cura. A maggior ragione nella malattia oncologica, in cui il malato può vivere momenti di vulnerabilità estrema, in cui il corpo può ridursi a un groviglio di sofferenza nelle mani di chi ha la facoltà (e l’onere) di decidere le terapie e i tempi, modi, luoghi in cui applicarle. Oggi la medicina ha imparato a riflettere su se stessa, sulla propria vocazione, sul proprio ambiente; da anni in molti ospedali c’è chi si sforza di “umanizzare” la degenza promuovendo iniziative per lo svago e la socializzazione. Giusto, ammirevole. Ma i Donatori puntano a qualcosa di diverso: a contrastare un modello di medicina che ancora tende a sequestrare il paziente in una enclave istituzionalizzata, a rinchiuderlo nell’identità esclusiva di “malato di cancro”- e qui viene spontanea un’analogia con gli interventi in situazioni di guerra civile o di catastrofe naturale, dove i colpiti sono vittime, certamente, ma non vittime soltanto, e amerebbero avere rapporti da persona a persona, non da bisognosi a soccorritori. Per rompere la segregazione, per dare spazio alle molte cose che un malato continua a essere, la via maestra è costruire legami fra i degenti, i loro familiari e amici, gli artisti, gli operatori sanitari. Un lavoro che non può accontentarsi della performance isolata perché vuole tempi lunghi, continuità, sapienza sedimentata, un contorno coerente. E’ in questa prospettiva che il concerto prende senso come strumento e simbolo di condivisione: si discute, lo si prepara insieme, insieme si vive la beatitudine che la musica sa dare, si gusta il cibo che accompagna l’incontro. E insieme si cambia. La presenza nel reparto dei musicisti, un pezzo di mondo dal quale i pazienti sono stati esclusi o si sono lasciati escludere, ha consentito – dicono i Donatori – una “rivoluzione imbarazzante” per la sua semplicità: iniziata dalla consapevolezza che ognuno è nello stesso tempo sano e malato, spesso in transito da una condizione all’altra, la rivoluzione è approdata alla scoperta che non
necessariamente il paziente è la figura che chiede e riceve, può altrettanto bene essere quella che offre e dà. In questa logica di scambio, l’artista porta la sua musica, gli operatori le proprie conoscenze, i malati il proprio sapere: esperienza del dolore, ma non soltanto, anche storia della vita che si è vissuta e si spera di tornare a vivere. E’ un insieme che protegge dal rischio di diventare, proprio malgrado, “malati professionali”. Ed è una critica pratica alla nostra cultura, in cui il cancro è avvolto da un’aura perturbante che rende difficile persino nominarlo, e che può falsare i rapporti e le parole. L’esperienza dice che ci si può opporre. E’ proprio dall’esperienza nascono i Donatori. Nel 2007 un musicologo e direttore artistico, degente all’ospedale di Carrara, propone al suo primario di organizzare un concerto – quel che faceva prima e vuol continuare a fare nel modo in cui gli è possibile. L’esperimento ha una ricaduta bella e fattiva oltre le previsioni, tanto che l’evento si trasforma in sistema, e invoglia altre persone,altre istituzioni – gli ospedali di Bolzano, Brescia, Saronno, Sondrio, Vicenza, San Camillo Forlanini di Roma. Un progetto così semplice e così ambizioso esige regole e patti. Agli artisti chiede, insieme all’eccellenza professionale, sensibilità e riserbo: nessun turismo umanitario, nessuna autopromozione o ritorno di immagine. Agli operatori chiede un lavoro costante di informazione calibrato sul livello diffuso di conoscenza della malattia e delle opzioni terapeutiche. A tutti si chiede empatia, rispetto reciproco,messa in discussione dei ruoli: nel setting del concerto, nessuno ha un abbigliamento “di funzione”, a significare che si tratta di una performance diversa da ogni altra. Ma nella cura il medico non abdica al suo ruolo. Lo svolge con più consapevolezza del punto di vista del malato, ma anche dei propri disagi, difficoltà, debolezze, da affrontare insieme. A differenza che nella direttiva “il malato al centro”, che lascia spesso la decisione nelle mani del medico, qui al centro è il rapporto. E quel rapporto è la condizione per una buona alleanza e una modalità di cura non accanita e non bellicosa – come avviene invece nella diffusa tendenza a concepire la terapia come guerra, duello, prova di forza. La priorità delle relazioni è l’altra faccia della “rivoluzione imbarazzante”: mentre ancora oggi l’«umanità» del curante è considerata dagli stessi pazienti un (pregevolissimo) di più, per i Donatori è parte integrante dell’eccellenza professionale. Senza la quale non c’è buona medicina né buona terapia. Questo impegno complessivo non è materia per un progetto di riforma sanitaria; è materia per un lavoro di riforma interiore, la stessa strada che porta a scegliere la nonviolenza e a decidere consapevolmente della propria vita.
Il Presidente del Comitato scientifico: Fabio Levi
Il Presidente della Fondazione: Enzo Nicolodi