Nel 1907 Roberto Assagioli, a 19 anni scrisse questo racconto ricco di metafore sulla ricerca spirituale. Assagioli diventerà poi medico e psichiatra, primo psicoanalista italiano e fondatore della Psicosintesi; viene considerato uno dei maggiori esponenti delle correnti umanistica e transpersonale della psicologia del XX secolo.
In un paese molto lontano, e soprattutto ben vicino a noi, vi è una strana città. La sua conformazione non rassomiglia ad alcuna di quelle che conosciamo. Essa è disposta, in forma di largo nastro circolare, tutto intorno alla base di un’altissima montagna, in modo che l’anello più largo, formato dai quartieri più bassi, è posto nella pianura, mentre le case che formano il contorno superiore del nastro sono appollaiate sui fianchi già rigidi della montagna.
Per lungo tempo questa originale struttura esteriore fu la sola stranezza che avesse la città. Nel resto nulla la distingueva dalle altre; i suoi abitanti vivevano come vivono gli uomini di questo mondo, facendo i loro affari, amandosi e odiandosi, combattendo tra di loro e con gli abitanti delle città vicine, senza inquietarsi granché dei terribili enigmi della vita. Se alcuno alzava gli occhi e fissava pensosamente la vetta altissima della montagna, che si perdeva sempre tra le nuvole, gli altri si pigliavano giuoco di lui e lo chiamavano sognatore e visionario.
Un giorno però successe un grave avvenimento. Un giovane che era dotato di vista straordinaria e che aveva a lungo fissato pensosamente la vetta altissima della montagna,affermò di aver scorto sulla vetta; attraverso uno strappo delle nuvole, un meraviglioso castello splendente di luce.
Il popolo dapprima rise del giovane e disse che aveva sognato, ma quando, dopo poco tempo, il giovane affermò di nuovo d’aver visto sulla vetta altissima, attraverso uno squarcio delle nubi, il castello risplendente, un vecchio popolano, fra i più vecchi della città, disse con voce fioca al popolo stupito che gli ricordava d’aver udito da fanciullo raccontare da suo nonno una strana leggenda. Essa narrava che sulla vetta della montagna esisteva un castello invisibile, nel quale era rinchiuso da un incanto magico un grande Re che attendeva da tempo immemorabile la liberazione.
Questo turbò profondamente i cittadini. Nessuno osò più ridere del giovane dalla vista acutissima e dallo sguardo rivolto in alto.
I più arditi proposero di partire e di tentare la scalata della montagna, ma quale speranza c’era di arrivare alla cima, se già da alcuni metri dalle case più alte i fianchi della montagna diventavano così ripidi che era molto pericoloso arrampicarvisi? Impotenti, i cittadini tornarono ai loro affari. Ma questi non li appagavano più; essi interrompevano spesso con impaziente malumore le loro piccole occupazioni e fissavano pensosamente la cima altissima della montagna nascosta fra le nuvole. Le loro anime erano piene di turbamento e di mistero.
Dopo qualche tempo uno straniero singolare arrivò nella città. La sua barba lunga e fluente era bianca, ma il suo portamento era giovanilmente eretto ed i suoi occhi avevano uno splendore straordinario, indicibile. Quando egli intese ciò che era avvenuto in città, non si stupì affatto, ma i suoi occhi scintillarono d’uno splendore ancora più vivo. Egli pregò subito che fosse radunato il popolo nella piazza più grande della città; quando ciò fu fatto salì sopra una piccola altura e cominciò a parlare con una voce possente e melodiosa.
« O popolo che non conosci ancora il tuo vero Re, ascolta le parole di colui che ti indicherà il modo di trovarlo. La città nella quale son nato è simile alla vostra; essa pure è adagiata a largo anello intorno ai fianchi di una altissima montagna la cui vetta si perdeva fra le nuvole. Trecento anni fa, quando io ero ancora fanciullo, si svolsero gli stessi avvenimenti che ora vi turbano. Anche costà fu riscoperto con grande emozione il castello risplendente; i più impazienti vollero tentare ad ogni costo la scalata della montagna, ma i loro cadaveri ricaddero sui tetti delle nostre case. Tutti, perciò, perdettero perfino la speranza di riuscire mai a raggiungere il Castello di Luce; ma non cessarono il desiderio e il rimpianto che avvelenavano tutte le loro gioie. Molti allora maledirono il Castello affascinante che era venuto a distruggere la loro beata ignoranza. Altri invece, poiché ben pochi avevano vista sì acuta da scorgere il castello eccelso e ben rari erano i momenti nei quali le nubi aprivano uno stretto spiraglio, negarono addirittura l’esistenza del castello luminoso, alcuni chiamando allucinati o impostori coloro che affermavano di vederlo, altri cercando di dimostrare con complicate teorie di fisica che esso era solo un gioco di luce, un vano miraggio. Così la città era piena di dispute e dissensi. Soltanto un giovane la cui fede era ardente, il cuore puro, la volontà indomabile, non si occupava di quanto dicevano i suoi concittadini, ma percorreva sempre i fianchi della montagna, ostinandosi a tentare la scalata. Un giorno, osservando per la settima volta le pareti piene di anfrattuosità di una vasta e tenebrosa caverna che aveva raggiunto per primo sui fianchi scoscesi della montagna, egli scoperse infine, nascosto dietro un masso gigantesco, uno stretto passaggio. Pieno di gioia e di ardore egli riuscì a insinuarvisi, non curandosi dei brani di carne che lasciava agli spigoli della pietra, e si accorse che il passaggio si mutava subito in una ripidissima scala i cui giganteschi gradini erano rozzamente tagliati nella roccia.
L’Alta Legge cui obbedisco e che mi ha inviato tra voi mi vieta di raccontarvi tutte le avventure del giovane dal cuore puro e dalla volontà incrollabile nel suo cammino interno verso il Re dell’ineffabile luce. Posso dirvi soltanto che trovò anzitutto la fantastica città dei piccoli gnomi, i quali lo volevano loro signore offrendogli tutti i tesori che sono nelle profondità della terra e misteriosi poteri dei quali essi conoscevano il segreto. Ma il giovane non sostò neppure un istante, trascinato dalla potente aspirazione verso gli abissi di luce.
Il giovane dalla fede ardente non tornò più fra noi, ma ci inviò, con mezzi misteriosi, dei meravigliosi messaggi sfolgoranti di gioia, nei quali egli pretendeva di non riuscire a darci neppure un cenno delle ineffabili glorie del mistico Castello. Inoltre egli ci rivelava dov’era l’inizio della via interiore ed incitava i puri, gli ardenti, i forti a… ». A questo punto, fattisi rapidamente largo fra il popolo silenzioso e affascinato, due ufficiali arrestarono e trascinarono in prigione il Saggio, per ordine dei governatori della città, quale perturbatore dell’ordine pubblico e cospiratore contro le istituzioni patrie. Il delitto era palese e la decisione rapida; la sera stessa il Saggio fu condannato a morte. La mattina dopo, sulla stessa piazza nella quale egli aveva parlato, fu eretto il palco della morte.
Il Saggio si avviò fermamente al supplizio, ma prima di porgere il collo al carnefice egli indicò colla mano la vetta altissima della montagna, avvolta da fosche nubi.
E quando la testa rotolò per terra il popolo attonito ed i governatori lividi videro le nubi aprirsi ed apparire alla sommità eccelsa una luce abbagliante che compenetrò e rese visibili le latebre più profonde e riposte della montagna.