INCONTRO E SEPARAZIONE SUL PIANO EMOTIVO IN PSICOTERAPIA
Parole chiave: empatia, identificazione proiettiva, immedesimazione indotta, psicoterapia, relazione d’aiuto
La psicoterapia si fonda sull’incontro tra due persone: una persona che soffre e desidera stare meglio; una persona che desidera curare e ha delle qualità e delle competenze che la rendono in grado di svolgere questo compito in modo professionale. Tutto nella psicoterapia avviene all’interno della cornice di questo incontro (Alberti, 1997).
In ogni incontro ciascuno porta ciò che è: la sua realtà e i suoi vissuti, il proprio corpo, le proprie percezioni, pensieri, sentimenti ed emozioni, i desideri, i ricordi, la rete di relazioni sociali e i propri ruoli, le proprie convinzioni spirituali. In psicoterapia sia il terapeuta che il paziente portano quindi il loro universo individuale enormemente ampio e complesso. Grazie all’incontro, questi due universi entrano in comunicazione, compartecipazione, osmosi.
L’incontro paziente-terapeuta, e la relazione che ne scaturisce, sono lo strumento fondamentale di una possibile trasformazione verso uno stato di maggior benessere del paziente ma non ne costituiscono l’unico asse. L’altro asse portante della trasformazione è costituito dalla “separazione”. Separazione come “individuazione” ovvero come scoperta di ciò che viene percepito come proprio, specifico, autentico. Separazione come passaggio dalla relazione terapeutica alla relazione con il resto della realtà circostante.
E’ grazie a questo doppio movimento di incontro e separazione che si rende possibile il processo di psicoterapia.
Numerosi sono gli aspetti interessanti che emergono se si osserva la psicoterapia utilizzando come punto di vista la dinamica di “incontro e separazione”. Il setting, ad esempio, sembra nelle sue regole e nella sua strutturazione, soprattutto in relazione allo spazio e al tempo, una metafora dei concetti di incontro e separazione. Altro esempio: incontro e separazione del nostro personale percorso di psicoterapia e di crescita (“guaritori” impegnati in un percorso di “guarigione”) con quello del paziente.
Qui mi soffermerò in particolare su alcuni aspetti riguardanti l’incontro e la separazione di sentimenti ed emozioni suscitati dalla relazione psicoterapeutica.
L’empatia è la consapevolezza delle emozioni di un’altra persona, la capacità di percepire cosa prova l’altro. Frequentemente il termine “empatia”viene utilizzato per indicare un atteggiamento del terapeuta di “comprensione profonda, calda e accogliente”; per quanto questo atteggiamento sia fondamentale ai fini della terapia credo che costituisca una parte dell’empatia ma non esaurisca l’ampia gamma di sentimenti ed emozioni che vengono condivisi tra paziente e terapeuta.
L’empatia si fonda sul “principio di analogia” grazie al quale se guardiamo un film, se leggiamo un libro, se ascoltiamo un racconto siamo in grado di calarci nei vissuti emotivi che attraversano i personaggi della narrazione perché le loro emozioni sono, in qualche misura, analoghe, simili alle emozioni che abbiamo sperimentato in una parte della nostra vita.
Dell’empatia esistono due aspetti con i quali uno psicoterapeuta si misura continuamente nello svolgimento del suo lavoro: l’“immedesimazione” e la “risonanza”.
L’immedesimazione consiste nell’identificarsi il più possibile con i vissuti e la storia del paziente per comprenderli profondamente e dall’interno; è “la capacità di immergersi nel mondo soggettivo dell’altro, di entrare nella sua pelle e partecipare alla sua esperienza in tutta la misura in cui la comunicazione verbale e non verbale lo permette. In parole più semplici: è la capacità di mettersi al posto dell’altro e vedere la realtà come la vede costui” (Rogers 1969).
Per immergersi nel mondo soggettivo dell’altro è necessario, come terapeuti, lasciarsi alle spalle quanto più possibile del nostro mondo soggettivo.
Una storiella Zen esprime con chiarezza questo concetto:
Una tazza di tè
Nan-in, un maestro giapponese dell’èra Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen. Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì a contenersi . “E’ ricolma. Non ce n’entra più!”. “Come quella tazza,” disse Nan-in “tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?”
(da “101 StorieZen” a cura di Nyogen Seenzaki e Paul Reps)
Come il paziente può spiegarci quello che prova se prima non vuotiamo la nostra “tazza”?
Le nostre identificazioni, i nostri pregiudizi e i nostri preconcetti costituiscono ostacoli all’immedesimazione. Non possiamo cogliere ciò che il paziente porta di specifico, nuovo e attuale se non mettiamo temporaneamente da parte le nostre generalizzazioni, i nostri ricordi ed esperienze. Un atteggiamento oggettivante, utile per capire e interpretare le dinamiche del paziente, è in questa fase un ostacolo alla sua comprensione profonda.
Un altro punto importante dell’immedesimazione riguarda l’entrare e uscire dal mondo interiore che l’altro ci dischiude senza lasciare tracce del nostro passaggio, senza contaminarlo con emozioni (quali rabbia, frustrazione, paura, imbarazzo…) che appartengono al nostro vissuto e non al suo.
La risonanza consiste nell’insieme di ciò che si produce in noi, nel nostro spazio interiore, per l’incontro delle parti dell’altro con le nostre parti, della storia del paziente con la nostra storia. Ogni vissuto che il paziente ci narra inevitabilmente suscita in noi sentimenti, pensieri, ricordi ecc. L’osservazione della risonanza emotiva richiede come prerequisito la disponibilità ad accogliere e contenere in noi terapeuti il mondo emotivo dei nostri pazienti e la disponibilità a stare in contatto con ciò che proviamo. Se l’immedesimazione è cercare di vedere il mondo del paziente “dall’interno”, prendere coscienza della risonanza è abbracciare pienamente il nostro punto di vista consapevoli che è il nostro personale punto di vista.
Per il terapeuta un atteggiamento di attenzione a ciò che i vissuti del paziente producono in lui, evocano, ricordano, risuonano è di aiuto nella comprensione di sé stesso, del paziente e della relazione.
Per quanto riguarda la risonanza è utile accogliere, osservare, sentire, riflettere ma anche saper “lasciar andare”, il lasciarsi “attraversare” dai vissuti dell’altro e dai vissuti suscitati ed evocati in noi per essere successivamente pronti ad accogliere ciò che il presente della relazione, sempre nuovo, ci offre.
Immedesimazione e osservazione delle risonanze sono due punti di vista tra i quali un terapeuta, consciamente o inconsciamente, oscilla continuamente. Questa dinamica è come una danza costituita da una sequenza di fluttuanti passi avanti e passi indietro. L’immedesimazione è come un passo avanti che il terapeuta compie per addentrarsi nel mondo soggettivo del paziente lasciandosi alle spalle il proprio mondo di emozioni ed esperienze. L’osservazione della risonanza è come un passo indietro che il terapeuta compie per penetrare nel proprio mondo soggettivo e confrontarsi con ciò che è stato mosso dall’aver accolto in quello spazio i vissuti del paziente.
È importante saper distinguere non solo cosa il paziente e cosa io, terapeuta portiamo nello spazio comune della relazione, ma anche saper disgiungere cosa io provo perché parte primitiva del mio mondo soggettivo e cosa provo perché attivamente suscitato dal paziente. A questo proposito una dinamica interessante è quella che Ogden ha descritto come “identificazione proiettiva” riferendosi ad un processo diverso e più complesso del meccanismo di difesa che viene comunemente indicato con questo nome (in tal senso per evitare confusione è auspicabile che una nuova terminologia venga coniata per indicare la dinamica descritta da Ogden; io suggerirei ad esempio i termini “immedesimazione indotta”).
L’“identificazione proiettiva” di Ogden è un processo in tre fasi:
- nella prima fase il paziente induce, di solito inconsciamente, il terapeuta a sperimentare percezioni ed emozioni simili ai propri;
- nella seconda fase il terapeuta si identifica con quanto proiettato dal paziente ovvero sperimenta una percezione o una emozione simile a quella del paziente; in questa fase il terapeuta può giungere o meno alla consapevolezza del fatto che ciò che prova è stato suscitato dal paziente e corrisponde ad una sua proiezione;
- il terapeuta contiene ed elabora le percezioni ed emozioni che sperimenta restituendole al paziente che può re-introiettarle modificate.
Questo processo si osserva frequentemente durante la terapia; dinamiche simili si verificano anche in situazioni non terapeutiche. Lo scorso anno ho, ad esempio, seguito attraverso una psicoterapia breve una giovane paziente che per un carcinoma intestinale aveva dovuto affrontare un intervento con pesanti conseguenze sull’immagine corporea, numerose complicanze ed enormi dolori (in quanto allergica ai principali analgesici) e che era giunta al nostro primo incontro in uno stato di marcata depressione dell’umore. Una delle prime volte che ci siamo visti mi ha raccontato un episodio accaduto il giorno precedente il nostro primo incontro: durante l’orario delle visite il marito e la figlia erano venuti a trovarla; era un giorno particolarmente triste e penoso per la paziente e lei li ha bruscamente mandati via dicendo che la loro presenza era totalmente inutile e che non le portava nessun beneficio. In questo modo aveva fatto sentire anche a loro parte del dolore e del senso di impotenza e di abbandono che la attanagliavano. Dopo una prima reazione di smarrimento e di risentimento, il marito e la figlia si erano stretti a lei con maggior calore ed erano intervenuti presso il personale del reparto sollecitando un intervento psicologico e ottenendo l’esecuzione di nuovi accertamenti che hanno dato risultati importanti per il decorso. La paziente aveva grossi sensi di colpa per la sofferenza che aveva causato alle persone che più amava ma tali sensi di colpa si sono attenuati quando le ho fatto notare che il suo atteggiamento, in realtà, esprimeva una richiesta di aiuto, di condivisione e di comprensione, formulata nell’unica modalità che era riuscita ad attuare in quel momento di grande sofferenza. L’identificazione proiettiva è per il paziente un affidare ad altri una parte di sé sofferente e nei confronti della quale si sente impotente e smarrito per cercare aiuto nel superamento di questa parte.
I due movimenti di immedesimazione e risonanza costituiscono una danza che il terapeuta condivide con il paziente: la “danza empatica” è un ballo di coppia nel senso che il paziente ha, esattamente come il terapeuta e simultaneamente a lui, le proprie dinamiche empatiche di immedesimazione e risonanza.
Il paziente solitamente sa poco del terapeuta, delle sua vita privata, dei suoi gusti, delle sue convinzioni. Ma per quanto possa “sapere” poco del suo terapeuta, incontro dopo incontro, lo “sperimenta” nei suoi modi di essere, pensare, provare emozioni, agire e reagire; ed è proprio l’empatia il canale preferenziale usato dal paziente per conoscere il proprio terapeuta.
I pazienti scandagliano attentamente il mare delle emozioni del terapeuta e sono sensibili a tutti gli aspetti che ne sono manifestazione: espressioni del volto, atteggiamenti del corpo, tono della voce, scelta delle parole …
Il primo aspetto che un paziente immedesimandosi nel terapeuta va a ricercare è la presenza di ciò che lui stesso prova e ha narrato. Il primo dubbio cruciale per il quale cerca rassicurazione è infatti: “il mio terapeuta può sperimentare e capire quello che io provo?”. Una presenza autenticamente empatica del terapeuta permette al paziente un rassicurante appagamento del bisogno di essere capito (e quindi meno solo) e di sentire che quello che prova non è eccezionalmente anomalo poiché qualcuno è in grado di comprenderlo. La capacità del terapeuta di far percepire al paziente la propria empatia è una delle qualità psicoterapeutiche fondamentali.
Il paziente valuta poi con attenzione se il terapeuta ha uno spazio di accoglienza non giudicante per lui, per la sua storia, per i suoi sentimenti: “il mio terapeuta è in grado di accogliere e contenere quello che provo? È in grado di farlo senza spaventarsi e ritrarsi, senza arrabbiarsi, senza criticarmi, …?”. Il paziente è attentamente alla ricerca di ogni segno del terapeuta che possa esprimere conferme o disconferme, accuse o discolpe, critiche o approvazioni, incoraggiamenti o inviti a desistere. Un atteggiamento di accoglienza non giudicante crea uno spazio nella relazione che si pone oltre queste dicotomie; uno spazio dove ogni pensiero e ogni sentimento può essere portato, sperimentato apertamente, condiviso, vissuto.
I pazienti si pongono un’altra domanda fondamentale: “che cosa se ne fa il terapeuta di ciò che io condivido con lui, di ciò di cui, raccontando, lo faccio partecipe?”
I pazienti affidano alla elaborazione del loro terapeuta, consciamente attraverso il loro racconto o per lo più inconsciamente tramite dinamiche tipo quelle di transfert o di “identificazione proiettiva” (secondo Ogden), contenuti e modalità di funzionamento psichici particolarmente significativi e dolorosi. Si tratta di contenuti e modalità di funzionamento che i pazienti non sono riusciti ad elaborare e trasformare efficacemente da soli. Proiettandoli sul terapeuta evocano in lui una elaborazione i cui esiti possono essere osservati. Le risposte e le reazioni del terapeuta vengono non solo osservate ma anche introiettate entrando in risonanza con tutti i contenuti psichici preesistenti. Questa introiezione è un possibile fattore di trasformazione e costituisce uno degli assi portanti della psicoterapia.
Perché questa dinamica tra paziente e terapeuta possa funzionare in senso terapeutico sono fondamentali due aspetti:
- maturità e integrazione della personalità del terapeuta;
- il maggiore grado possibile di consapevolezza da parte del terapeuta delle dinamiche in atto.
Esserne consapevole permette una migliore elaborazione e consente di trovare un modo di restituzione empatica che tenga conto più della realtà psichica del paziente (immedesimazione) che della propria (risonanza) favorendo l’introiezione e facilitando il cambiamento.
L’empatia non è quindi per il paziente solo strumento di conoscenza di ciò che prova il terapeuta ma si rivela fonte di esperienza trasformativa.
La dimensione empatica si trasforma con il progredire della terapia. Se in una fase iniziale della terapia il paziente vive gran parte delle dinamiche empatiche con il proprio terapeuta a livello inconscio con il passare del tempo esse diventano sempre più consapevoli. Inoltre, piano piano, all’incontro emotivo fatto di profonda comunione e condivisione, di intensi processi proiettivi e introiettivi, si affianca un senso di separazione crescente con il crescere della consapevolezza di sé, dei propri confini e con lo svilupparsi del senso di integrazione della personalità e dell’autonomia.
La “danza empatica”, costituita da innumerevoli movimenti di immedesimazione e risonanza, di incontro e separazione, avvicinamento e allontanamento è un aspetto fondamentale del processo psicoterapeutico. Nella mia esperienza clinica quanto più ne sono stato consapevole conoscitore e abile interprete tanto più efficacemente mi è parso di essere di aiuto ai miei pazienti.
(questo articolo è comparso originariamente sulla Rivista di Psicosintesi Terapeutica n.13 del 2006)
BIBLIOGRAFIA
Alberti A., L’uomo che soffre l’uomo che cura, Giampiero Pagnini Editore, Firenze, 1997.
Nyogen Seenzaki e Paul Reps (a cura di), 101 Storie Zen”, Adelphi edizioni, 1973.
Ogden T.H., On projective identification, Int. J. Psycho-Anal., 60, 356-373, 1979.
Rogers K., Terapia centrata sul cliente, La Nuova Italia Editrice, Scandicci (Firenze), 1997.
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