IL BURNOUT IN ONCOLOGIA
Cura degli altri e cura di se stessi
di
Alessandro Toccafondi e Andrea Bonacchi
Il problema della sicurezza e del benessere psico-fisico dei lavoratori ha ricevuto nel nostro paese un interesse crescente negli ultimi anni, sia da parte della classe dirigente, sia dell’opinione pubblica. In particolare si è prestata maggiore attenzione al benessere complessivo nell’ambiente di lavoro, ampliando la tutela del lavoratore al benessere psicologico e sociale oltre a quello prettamente fisico.
Sotto il profilo assistenziale a partire dal 2004 (G.U. 134 del 10 giugno 2004 e G.U. 74 dell’1 aprile 2010) sono state inserite, fra le patologie per cui è obbligatoria la denuncia all’INAIL da parte del medico, le “Malattie psichiche e psicosomatiche da disfunzione dell’organizzazione del lavoro”. Nel Piano Sanitario Nazionale 2006-2008 (PSN) è stato incluso inoltre il burnout tra le “patologie da rischi emergenti” dovute a fattori psicosociali associati a stress. Infine, sulla base di quanto espresso dall’art. 28 del Dlgs 81/2008 dal 1° Gennaio 2011 tutte le Aziende, pubbliche e private, sono obbligate a valutare il rischio da stress lavoro-correlato all’interno delle stesse e a mettere in atto strategie per prevenirne l’insorgenza o correggerlo se già presente.
In ambito socio-sanitario oltre all’insieme di fattori comuni a tutte le professioni che possono favorire l’insorgenza di condizioni da stress lavoro-correlato (sovraccarico lavorativo, limitata partecipazione alle decisioni professionali, ambiguità di ruolo ecc.)1 si aggiunge il “costo” emotivo derivante dallo stare a contatto con persone sofferenti in contesti in cui la relazione con gli altri è parte integrante delle mansioni professionali.
Un ulteriore aspetto da considerare è il cambiamento, in Italia come in altri paesi occidentali, nell’organizzazione e funzionamento delle strutture sanitarie avvenuto negli ultimi anni: aumento della burocrazia, necessità di ridurre al minimo il periodo di ospedalizzazione, budget limitati, ecc.2 In ambito oncologico a tali aspetti si sommano il crescente numero di pazienti con neoplasie da prendere in cura e la sempre maggiore complessità dei protocolli di trattamento da tenere in considerazione. Tutti questi fattori possono aumentare il carico di stress lavorativo sui singoli operatori minacciandone il funzionamento e il benessere professionale.
La sindrome di burnout
Il concetto di burnout fu introdotto per la prima volta da Freudenberger per descrivere una condizione di stress psicologico lavoro-correlata che interessava gli operatori socio-sanitari dovuta al prolungato contatto con pazienti sofferenti e in fin di vita 3. Tale costrutto fu successivamente ampliato da Maslach a cui si deve il primo, ed ancora oggi il più utilizzato, strumento per la valutazione del burnout fra gli operatori sanitari e gli insegnanti: il Maslach Burnout Inventory (MBI)4. E’ importante sottolineare che non vi è una demarcazione netta tra una condizione lavorativa normale e il burnout, di conseguenza il disagio psicologico dell’operatore va considerato lungo un continuum dinamico e modificabile nel tempo.
Gli studi effettuati negli anni, finalizzati a definire le dimensioni concettuali del burnout, si sono sviluppati lungo due principali correnti: da un lato gli autori che ne hanno studiato i sintomi principali (definizione di stato), dall’altro chi ha cercato di descriverne l’evoluzione (definizione di processo).
Per quel che riguarda la prima corrente i lavori più importanti sono stati condotti dalla Maslach, secondo cui la sindrome di Burnout è costituita da tre principali dimensioni fra loro indipendenti5:
- esaurimento emotivo, cioè la sensazione di essere inaridito emotivamente associata alla convinzione che non si ha più niente da offrire a livello psicologico;
- depersonalizzazione, caratterizzata ad atteggiamenti di freddezza, distacco, cinismo e di ostilità nei confronti degli utenti del proprio servizio;
- ridotta realizzazione professionale, con conseguente caduta dell’autostima e attenuazione del desiderio di successo.
Altri autori hanno invece descritto il burnout come processo mettendone in risalto l’evoluzione temporale. Secondo il modello descritto da Cherniss la sindrome di burnout può essere suddivisa in tre principali fasi6. Nella prima emerge uno stato di stress lavorativo dovuto alla percezione, da parte dell’operatore, di uno squilibrio tra risorse (personali e organizzative) e richieste dell’utenza. Ciò comporta lo sviluppo di una serie di sintomi psicologici (2° fase) tra cui: fatica, tensione emotiva, esaurimento. Nell’ultima fase emerge una risposta difensiva, caratterizzata da una serie di cambiamenti nell’atteggiamento verso se stessi, verso i colleghi e verso l’utenza, finalizzata a limitare i danni fisici e psichici risultanti dallo stress psicologico a cui il soggetto è sottoposto. In questo quadro quindi il burnout si configura come una risposta dell’operatore alle difficoltà del lavoro nei contesti di aiuto.
Le manifestazioni sintomatologiche del burnout sono svariate e possono variare da persona a persona. Nel complesso tuttavia si presentano: sintomi psicologici (negativismo, irritabilità, alterazione del tono dell’umore, demoralizzazione, ansia, apatia, abulia, noia, senso di colpa, sospetto e paranoia); sintomi fisici (stanchezza e facile esauribilità, facilità ad ammalarsi, dolori disturbi gastrointestinali, insonnia, frequenti mal di testa); cambiamenti di atteggiamento (distacco e cinismo verso gli utenti, atteggiamento colpevolizzante nei loro confronti) e cambiamenti comportamentali (assenze e ritardi al lavoro, ricorso a procedure standardizzate, scarsa creatività, aumento di piccoli incidenti a proprio danno). Dato che questi sintomi possono essere dovuti a quadri psichiatrici indipendenti dall’attività lavorativa, risulta importante differenziare la sindrome di burnout da condizioni psicopatologiche cui gli operatori possono essere affetti7.
Le ricerche sull’insorgenza burnout sono state affrontate da prospettive diverse, riconducibili a tre principali orientamenti:
- individualistico: in cui vengono enfatizzati i processi intrapersonali, in particolar modo la discrepanza tra aspettative e realtà quotidiana;
- interpersonale: in questo approccio si studiano le dinamiche relazionali dell’operatore con gli utenti, i colleghi e qualsiasi altra figura con cui deve relazionarsi (famigliari dei pazienti, superiori ecc).
- organizzativa in cui si studia il contesto lavorativo nel suo complesso: ambiente di lavoro, qualità dell’organizzazione, ruoli ecc.
Tuttavia questi orientamenti non si escludono a vicenda, infatti oggi il burnout è considerato una condizione multidimensionale in cui fattori legati al soggetto (personalità, motivazioni) interagiscono con le relazioni interpersonali e con gli aspetti organizzativi del luogo di lavoro.
Gli studi che hanno indagato la presenza del burnout in ambito sanitario non hanno sempre fornito risultati omogenei, con percentuali tra il 25% e il 60%, fino al 75% in alcuni studi8. Tale variabilità è da attribuirsi da un lato ai diversi tipi di strumenti di valutazione utilizzati, dall’altro dalla variabilità con cui il burnout si presenta nelle diverse specialità mediche.
Il burnout in oncologia
In ambito oncologico il rischio di sviluppare il burnout sembra particolarmente elevato, sebbene non necessariamente più alto rispetto ad altri setting clinici9.
Uno dei primi e più ampi studi sull’argomento è del 1991 e coinvolse 1000 oncologi appartenenti all’American Society of Clinical Oncology10. Tra i 598 soggetti che aderirono allo studio il 56% riportò di essere stato vittima di burnout almeno una volta durante la sua carriera, descritto dalla maggior parte dei medici (95%) come senso di fallimento. Questa ricerca tuttavia utilizzava un questionario di 12 domande non validato e creato ad hoc dai ricercatori, di conseguenza i risultati sono difficilmente comparabili con le ricerche successive.
Dati interessanti sulla prevalenza del burnout in ambito oncologico derivano da una review pubblicata nel 2008 condotta sugli studi che avevano utilizzato come strumento di valutazione il Maslach Burnout Inventory (MBI) 11. Nel complesso si riporta che una percentuale compresa tra l’8% e il 51% (media 33,5%) di tutti i soggetti esaminati presentava punteggi elevati in almeno una delle tre scale del questionario. L’ampia variabilità secondo gli autori è da attribuirsi a tre fattori: in primo luogo gli studi sono stati eseguiti in paesi con organizzazione dei servizi sanitari diversi fra loro; in secondo luogo le percentuali sono relative a varie professionalità operanti in campo oncologico; ed infine alle diverse percentuali di risposta ai questionari negli studi considerati.
Ricerche successive condotte in vari paesi occidentali hanno riportato stime di burnout tra gli operatori oncologici in linea con i dati ricavati dalla review, mostrando nel complesso che almeno 1/3 del personale mostra una sindrome da burnout12-18.
E’ stato evidenziato che il burnout negli operatori ha svariate ripercussioni sia in ambito personale, sia sul funzionamento professionale8. Rientrano nella prima categoria: deterioramento della vita sociale, conflitti familiari, incremento di disturbi d’ansia e depressione, abuso di sostanze e, in alcuni casi, suicidio. Per quel che concerne gli aspetti legati all’attività lavorativa il burnout è associato con una riduzione nella produttività e dell’efficienza delle prestazioni erogate, assenteismo, riduzione del tempo dedicato ai pazienti, aumentata probabilità di prescrivere esami o procedure non necessarie e aderenza al trattamento da parte dei pazienti. Nel complesso quindi questi fattori riducono significativamente la qualità assistenziale erogata agli utenti.
Il burnout è determinato da una molteplicità di fattori che riguardano sia le caratteristiche e l’organizzazione dell’ambiente di lavoro, sia il singolo soggetto. Tali dati si riferiscono a quanto emerso dalla letteratura generale sul burnout e non esclusivamente dagli studi in ambito oncologico che risultano a tutt’oggi troppo limitati per evidenziare i principali correlati del burnout negli operatori di questo settore9.
I principali fattori organizzativi sembrano essere: sovraccarico di lavoro, svolgere mansioni monotone, mancanza di feedback sull’operato, limitati momenti di apprendimento e sviluppo, scarsità di risorse nell’ambiente di lavoro e basso controllo sul proprio lavoro. Sotto il profilo individuale alcune variabili socio-demografiche sembrano maggiormente associate al rischio di sviluppare il burnout: essere femmina, giovane età e single (soprattutto per i maschi). Tuttavia le evidenze a supporto di queste correlazioni non sono molto elevate e non sempre sono state confermate, quindi sono necessari ulteriori approfondimenti. In generale infatti gli studi hanno fino ad oggi dato maggiore spazio ai fattori legati al contesto lavorativo, prestando meno attenzione alla dimensione individuale nella risposta agli eventi stressanti collegati al lavoro, in particolare pochi sono gli studi che hanno tentato di individuare l’interazione tra i fattori lavorativi e quelli individuali. Di conseguenza anche i correlati psicologici potenzialmente associati al burnout non hanno ricevuto particolare attenzione. Alcuni dati suggeriscono che tratti di personalità quali neuroticismo, estroversione e comportamento di tipo A possono favorire l’emergere di tale sindrome, cosi come un locus of control esterno e uno stile di coping passivo-evitante. Sono tuttavia necessari altri studi per confermare queste indicazioni.
Lo scenario italiano
Per quanto riguarda il panorama italiano gli studi sul burnout in oncologia non sono numerosi. Una delle prime ricerche in questo ambito, pubblicata nel 1996 che interessò varie categorie professionali attive in unità oncologiche lombarde (oncologi, infermieri, radioterapisti e tecnici di radioterapia)19. Furono valutati due indicatori di distress psicologico, ansia e depressione, rilevando punteggi elevati rispettivamente nel 53% e 16% dei soggetti esaminati, prevalentemente donne giovani. Dati più recenti provengono da una ricerca riguardante la relazione tra abilità comunicative dei medici e livelli di burnout (valutato con l’MBI), coordinata dal Southern European Psycho-oncology Group del 2005 che coinvolse anche l’Italia20. I dati complessi sui paesi esaminati riportarono che il 25,6% dei soggetti aveva alti livelli di esaurimento emotivo, il 22.3% di depersonalizzazione e il 21,4% bassi valori di realizzazione personale. Tuttavia il sottocampione italiano (44 medici), benché utile nell’ambito di una ricerca multinazionale, non consente di avere dati rappresentativi del burnout in oncologia nel nostro paese. Inoltre esso riguarda solo i medici e non altre figure professionali operanti in oncologia. Dati simili sono comunque emersi da uno studio del 2008 volto a valutare l’arteterapia come strumento utile per ridurre il burnout, condotto su 65 operatori (medici e infermieri) operanti in unità oncologiche per adulti (32) e pediatriche (33)21. Una recente ricerca sul burnout negli infermieri ha confrontato 82 infermieri operanti in unità oncologiche ospedaliere (59) e negli Hospice (32)22. In accordo con altri studi internazionali, coloro che lavoravano negli Hospice riportarono minori livelli di burnout rispetto ai colleghi dei reparti oncologici ospedalieri. Il più ampio studio italiano sull’argomento è una ricerca multicentrica che ha coinvolto 440 soggetti, tra medici e infermieri, appartenenti a 9 diversi centri di oncoematologia sparsi nel territorio italiano13. I risultati hanno mostrato, in linea con le percentuali di altri paesi occidentali, i seguenti valori medi tra le due categorie professionali: esaurimento emotivo 32%; depersonalizzazione 26,7% e ridotta realizzazione personale 13,9%. Non sono state individuate differenze tra medici e infermieri. La maggiori fonti di stress erano legati all’ambiente lavorativo e alla sua organizzazione che portava ad un eccessivo carico di lavoro.
Da questa panoramica sui principali studi effettuati in Italia sul burnout in oncologia possiamo individuare alcuni aspetti. In primo luogo che i dati attualmente in nostro possesso non consentono una visione chiara dell’estensione del fenomeno, a causa della ridotta numerosità dei campioni presi in esame o in quanto limitati a determinati settori oncologici specialistici. Si avverte quindi, per avere dati epidemiologici più solidi, l’esigenza di studi multicentrici condotti su popolazioni più numerose. Pochi studi inoltre hanno preso in considerazione sia i medici che gli infermieri, e nessuno ha valutato la prevalenza del burnout tra gli operatori socio-sanitari (OSS), sempre più presenti nei contesti di cura oncologica. In secondo luogo risultano scarsi i dati riguardanti fattori potenzialmente collegati al burnout: caratteristiche socio-demografiche, ambiente di lavoro, setting clinico. Infine, per quanto a nostra conoscenza, non sono stati svolti studi circa gli aspetti di personalità e altri costrutti psicologici collegabili al burnout, peraltro scarsi anche nella letteratura internazionale.
Prospettive per la ricerca e la prevenzione
Un campo poco esplorato nella letteratura sul burnout sono i fattori protettivi. Sarebbe interessante valutare se determinate caratteristiche psicologiche “positive/costruttive” consentano all’operatore un maggior adattamento in contesti, come l’oncologia, dove il rischio di burnout è elevato. Da qui la possibilità di implementare programmi preventivi mirati a rafforzare certe caratteristiche positive nel professionista, come strategia da affiancare ad azioni sui fattori ambientali stressanti o sulle caratteristiche psicologiche disadattive.
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